L'INCONOSCIUTA

I nodi

 

Lisistrata la incontrai un pomeriggio, per caso. Mi disse che aveva letto i miei libri e che le erano piaciuti.

Aveva voglia di parlare, perché “anche io ne avrei, di storie da raccontare”. Ma lasciò il discorso in sospeso e, dopo qualche convenevole di cui non ricordo nulla, ci ripromettemmo di vederci presto. Sentivo che non sarebbe successo.

Invece mi sorprese, molto tempo dopo, con una telefonata.

Aveva cambiato casa e le erano morti i suoi due cani. Poi tornò sul fatto delle sue storie e mi disse che ci aveva pensato: “Accetteresti di scriverle al mio posto?”

Restai perplessa, ma la invitai a casa mia per parlarne, la sera dopo.

Preparai un risotto con i fiori di zucchina, e mentre il sugo e il brodo si facevano, lei, seduta a capotavola, spargeva sulla tavola fogli e fotografie che mi illustrava con foga. Quando mi accinsi a stendere la tovaglia per apparecchiare, risistemò il tutto in una vecchia scatola di latta litografata, sul coperchio un profilo di donna, delicato come un cammeo. L’aveva ricevuta in dono da uno zio quand’era bambina, ripiena di bonbon, e l’aveva conservata perché le erano piaciuti i colori e la figura sul coperchio. Mi spiegò che aveva cambiato spesso casa e che, ad ogni trasloco, quella scatola era il primo oggetto che aveva cura di riporre. La vedevo, mentre raccontava, come una nave reduce da tempeste furiose, che ora aveva preso casa nella parte più segreta della città, senza sapere se sarebbe stato l’ultimo approdo o solo un’altra riva da cui ripartire, con la sua scatola di latta. E cos’altro?

Ascoltai, quasi incredula, alcuni particolari della sua vita, della vita di sua madre e di quella della madre di sua madre.

Il suo viso mentre raccontava, era disteso, la sua voce calma, quasi si trattasse non di sé ma di un’altra. Solo quando le chiesi di dirmi in poche parole, cosa la spingeva a voler fare della sua vita un libro, una luce calma le illuminò lo sguardo: “mia madre, voglio che ne resti traccia. Di lei, e così della mia vita, intrecciata alla sua in un nodo di seta. Un nodo che non è da sciogliere, ma da custodire come l’essenza più profonda del mio animo. E poi, della madre di mia madre, anche. Un nodo, questo, sciolto per sempre”.

Dopo aver ascoltato quelle parole mi convinsi che, esaudire il suo desiderio non avrebbe significato per me una semplice esperienza letteraria, bensì ottemperare a un dovere. Ci voleva qualcuno che li sciogliesse, quei nodi, o ne desse una chiave per tenerli fermi senza che stringessero e facessero male. Sarei stata all’altezza? Le espressi sinceramente le mie perplessità e i miei dubbi nell’entrare nel vivo di vite fino a quel momento a me estranee. Un conto era inventarsi dei personaggi, o attingere da sé stessi. Un altro era trascrivere una vita altrui, con le sue resistenze, i segreti non necessariamente svelati. Chi confessa mente o dice il vero? E chi mette la confessione per iscritto, sarà fedele?

 

Ho letto un giorno, da qualche parte, che in India ci sono, davanti agli uffici postali, degli scrivani, a cui gli analfabeti dettano le lettere da spedire ai loro cari. Si limiteranno a mettere in bella calligrafia ciò che gli viene detto o gli sfuggirà qualche invenzione che cambierà tutto?

Certo, Lisistrata non è analfabeta, ma nel momento stesso in cui accettai sapevo che avrei preso la sua storia e l’avrei annodata nella mia scrittura. Solo così, avrei potuto esaudire la sua richiesta. Rendendola mia. Perché è questo che fa un’autrice. Avevo intuito, come lei del resto, che, a quel punto, le nostre vite avevano cominciato a sfiorarsi una con l’altra.

Mi invitò a casa sua subito per la sera dopo, e io accettai, convinta che il contatto con la fisicità del luogo in cui abitava, avrebbe potuto aiutarmi.

Il quartiere era un intrico di strade strette che si incrociavano, budelli bui che finivano nello slargo dove sorgevano i resti di una antica prigione in cui, alcuni secoli prima, venivano inchiusi quelli che non avevano potuto pagare i loro debiti.

Chissà come, per associazione di idee, mi vennero in mente coloro che, pur in punto di morte, non pagano i debiti con loro stessi, con il prossimo, e con la vita. Mi corse un brivido lungo la schiena e affrettai il passo verso il punto in cui lei mi stava aspettando.

 

Mi venne incontro con la mascherina anticovid, ma io indovinai il suo sorriso aperto e sincero. Mentre l’osservavo pensai che forse proprio la pandemia che era esplosa da un giorno all’altro nelle nostre case, nelle città, nei paesi, con il suo tagliare di netto le relazioni sociali, il suo far trasalire, il suo costringere a un cambio di prospettiva esistenziale, aveva indotto Lisistrata a scendere nei meandri delle memorie personali e nel magma delle emozioni. Come tutti noi, del resto.

Portava un taglio corto, biondo cenere, orecchini di foggia antica con pietre d’agata e occhiali tondi cerchiati di nero.

Quando entrammo in casa, nella penombra, colsi l’essenzialità dell’arredo. Pensai che oltre al cambio di abitazione, era cambiato anche il suo tenore di vita. Nel vano d’ingresso, un cucinino, un divano, una libreria e tavolino e sedie in ferro

battuto.

Nell’altro vano due armadi primi novecento e, contro la parete, una rete e un materasso rivestito da un copriletto di tela grezza.

“Adoro i mercatini dell’usato – mi disse – troverò, un giorno o l’altro, una testata per il letto”.

La nudità di quell’angolo notte mi sorprese ma, ovviamente, non glielo dissi, notai invece come le tendine in alto, ornavano con leggerezza e vaporosità la piccola finestra a bocca di lupo, conferendo alle pareti una sfumatura rosa.

“Usciamo – mi incitò – io sto poco in casa. Ho bisogno di luce, ti porto nel mio giardino”.

Il giardino era un orto urbano, ricavato in uno dei tanti spazi abbandonati di quella zona della città. Per sottrarli ai topi e ai rampicanti chiunque li poteva adottare e costruirvi il proprio frammento di verde.

Prima di varcare la porta, notai alle pareti del vano d’ingresso alcuni pannelli e, tra essi la locandina di uno spettacolo teatrale. Si accorse che mi ero fermata a osservarlo.

“L’Antigone di Sofocle – disse – l’amore prima delle leggi… non sono nata per condividere l’odio ma l’amore… Si vede che il teatro era nel mio destino… pensa al mio nome: Lisistrata… Lisi come mi chiamano tutti… Sai chi era, vero?” “Ha dato il titolo ad una commedia di Aristofane se non sbaglio”, le risposi. “Esatto, brava! Penso che sia di una modernità sorprendente. Vi si riconosce il potere delle donne nell’intervenire addirittura nel groviglio di una guerra decennale e nel porvi fine, e, alle donne stesse, viene riconosciuto il desiderio sessuale in quanto forza vitale, potente e naturale capace di sconvolgere e di trasformare”. Era come se recitasse una parte imparata a memoria. Ma quando era stata imparata? Da sempre, da quando il nome le era stato dato dalla madre o da un punto molto più in avanti in cui, nella sua vita, era cambiato qualcosa. Un punto in cui il nome aveva cessato di essere semplicemente un nome, ma era diventato una predestinazione.

Mi volse la schiena e, risoluta, afferrò un sacco con le rotelle, di quelli che si portano al supermercato per fare la spesa, e se lo trascinò dietro lungo i quattro gradini in pietra che dal portone scendevano nel vicolo.

 

 

 

 

Continua...

 

 

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